Campagna. Giornata di sole. Un bambino corre a perdifiato tra spighe di grano alte e bionde quanto lui, calpestando i molli petali dei papaveri, urlando di felicità. C’è un pozzo artesiano poco distante, dritto per la sua corsa. Non lo si vede, coperto dalla vegetazione.
Poco indietro un van con le portiere aperte, un tavolino pieghevole già apparecchiato, la mamma che finisce di scaldare i fagioli in scatola sul fornello da campo. È quasi ora di pranzo. Dov’è Freddy? Vai a guardare, sarà a giocare in giro. Il padre parte. Prima a passo lento, convinto di trovarlo poco più in là, che osserva un grillotalpa o raccoglie un mazzolino di fiori di campo per mamma. Poi, un passo dopo l’altro, il tempo che incalza, si accorge che Freddy non si vede. Chiama il suo nome a squarciagola, corre disperato torno torno, avverte la moglie, si mettono in due a cercarlo. Niente.
Solo verso sera il padre si accorge di quel buco nel terreno. Il cuore smette di battere. Si avvicina incerto. Si sporge oltre l’orlo del pozzo artesiano. Vede una figura umana muoversi laggiù in fondo, incastrata tra la parete e uno spuntone di roccia. È Freddy quello? Ci è caduto dentro mentre correva? Inghiottito dalla terra?
Stravolta dall’angoscia prova a chiamarlo, balbetta le consonanti del suo nome. Una vocina gli risponde: «Papà!… Papà!…» La vocina è sottile sottile, affaticata, colma di dolore e di paura. Il padre disperato non può far altro che ficcarci dentro un braccio, ma tra la punta delle sue dita e suo figlio ci passeranno in mezzo duecento piedi di distanza.
I genitori si sdraiano con la faccia dentro l’imboccatura del pozzo. Lo chiamano. «Aiutatemi!» risponde lui.
Arrivano i Vigili del Fuoco, la Protezione Civile, le autoambulanze. Si ritiene di riuscire a risolvere la cosa in breve tempo, calando qualcuno là sotto ad afferrare il bambino e tirarselo dietro. Imbragano prima un pompiere segaligno poi un nano, alla fine un contorsionista del Circo Korallo, li fanno scendere a testa ingiù, a mani in avanti, ma niente da fare: o non riescono ad arrivarci o, se ci arrivano, non riescono ad afferrarlo, Freddy gli scivola via dalle mani come una saponetta.
Arrivano le ruspe e le escavatrici per creare una galleria parallela da cui raggiungere quella in cui Freddy è intrappolato e acchiapparlo da sotto.
Arrivano anche le troupe televisive, come uno sciame di cavallette su un ricco raccolto da spartirsi con le loro mandibole frenetiche. Non esistono ancora le olotrasmissioni, tanto meno le trasmissioni per via teleneurale. Si trasmette tramite un complicato sistema algoritmico, invece della portante modulata attraverso i raggi ultra-gamma come quella attuale.
Neppure esistono ancora i cyborcronisti e i droni non sono ancora senzienti. La zona intorno al pozzo si riempie perciò di una miriade di fotografi, teleoperatori, giornalisti a ostacolare involontariamente i lavori, mentre Freddy rimane là, allo sprofondo, l’acqua che gli gorgoglia poco sotto i piedi sospesi nel nulla, un cerchio sopra la testa da cui intravvede il mondo soprastante, il cielo azzurro, lo stellato notturno, le teste di chi ci sbircia dentro, le elettrosonde a filo per comunicarci e monitorarne il respiro, le fleboclisi di acqua e zucchero per nutrirlo, lo stetoscopio per auscultarne a distanza il battito cardiaco.
Una decina di migliaia di curiosi fa presto a convergere su quel lembo di terra, tutti intorno a quella voragine come mosconi intorno a un pozzo nero. Si portano il pranzo al sacco, il sacco a pelo, dormono lì, mangiano, ogni tanto da ubriachi si affacciano sul buco e gridano: «Freddy! Freddy!» Qualcuno, facendolo, sghignazza. Qualche volta in risposta un lamento, sempre più fievole. È lui! È ancora vivo! Menomale, perché più la sua agonia dura meglio è, per i presenti, per i milioni di telespettatori agganciati in diretta nella speranza che lo ripeschino vivo da un momento all’altro, oppure no, un corpicino senza vita, che forse forse è ancora più emozionante. Lo sperano anche i venditori ambulanti, che si sono assiepati loro pure intorno al luogo della tragedia in pieno svolgimento. Vendono bibite fresche, panini, magliette con sopra delle scritte di incitamento: “Vai, Freddy! Ce la farai” oppure “Dai, sei tutti noi!” stampate in fretta per essere sul posto a distribuirle per un paio di verdoni cadauna, con il loro bel ricarico del 200%.
I tecnici confabulano, fingono di sapere come tirare fuori il fantolino, rilasciano interviste, stringono mani.
Poi, in mezzo a tutti loro ci sono i genitori di Freddy, che guardano con angoscia tutto quel finimondo, che hanno orecchie e occhi solo per i gemiti che escono dalla pancia della terra, per i minimi movimenti che si riescono a percepire guardandoci dentro. Arriva anche il presidente. A quei tempi il mondo non è ancora riunito sotto un’unica confederazione di stati. In carica non esiste un unico presidente di tutti gli stati mondiali. Il presidente che va in visita è quello che fa capo alla repubblica sotto cui tutti loro vivono. Sarebbe un onore per i genitori, se lo strazio non superasse qualunque altro sentimento. Si prestano con distacco all’incontro, alle foto di rito, alle parole di circostanza. Si è sotto campagna elettorale in quel periodo, dà l’idea che la cosa c’entri. [continua qui]
Tratto da MISTER OKAY